Django Reinnhardt. Anche solo Django, perché il nome di nascita, Jean-Baptiste, non lo usa nessuno tra la sua gente, i nomadi Sinti. Basta il soprannome ad aprire nella mente di ogni chitarrista, jazz e non, un mondo fatto di ritmiche con i quarti ben scanditi e gli accenti sui tempi pari, melodie dolci che si incollano alla memoria e improvvisazioni che sono cascate infinite di note, sfide alla fantasia, alla precisione di esecuzione, alla velocità: la poesia e la forza Manouche.

Nella storia della chitarra, Django è un esploratore che ha aperto una nuova via con una tale potenza che ancora oggi, un secolo dopo, il suo percorso viene seguito con quanta più fedeltà possibile, e ben poco rinnovato. Artisti come Bireli Lagrene, Angelo Debarre, Stochelo Rosenberg, Tchavolo Schmitt, Romane, Dorado Schmitt… per citarne solo qualcuno, sono musicisti incredibili, virtuosi della chitarra che ripropongono fedeli gli insegnamenti di Django e il suo Gipsy Jazz.

Il destino gli salvò la vita, ma si prese una gamba e due dita

Per creare Django ci sono dovute due nascite, entrambe avvenute in un caravan. La prima quando sua mamma lo partorì, il 23 gennaio 1910, a Liverchies, in Belgio, dove si era accampata la carovana dei suoi genitori. La seconda diciotto anni dopo, alle porte di Parigi, quando la sua roulotte prese fuoco. Il destino gli risparmiò la vita, ma in cambio si prese la mobilità di una gamba e di due dita della mano sinistra, l’anulare e il mignolo, bruciati dalle fiamme.

All’epoca Django si guadagnava già da vivere come musicista, suonava il banjo, e la perdita di due dita stroncava ogni speranza di proseguire su quella strada. Ma Reinhardt non era uomo da piegarsi senza lottare. Dopo aver rifiutato l’amputazione della mano, come gli consigliavano i medici, impiegò i lunghissimi mesi della degenza in ospedale per studiare la chitarra, strumento meno duro del banjo, e trovare un modo per suonarla con la sua mano deforme. Lo trovò. E fu un successo creato a colpi di talento e allergia a ogni convenzione: dalle diteggiature della mano sinistra alla plettrata con la destra ogni cosa è originale nello suo stile.

Un genio analfabeta

Orgoglioso e alternativo in ogni manifestazione della vita, Django non sapeva leggere né scrivere, né la musica né le parole. Raramente era puntuale ai suoi concerti, amava avere rotoli di banconote nelle tasche, ma i soldi uscivano con la stessa rapidità con cui entravano, per pagare piaceri. Le convenzioni dei “paesani”, come i Sinti chiamavano i cittadini stanziali, non interessavano a Django. A lui interessava vivere. E suonare.

Quintette du Hot Club de France

Il suo gruppo più famoso, il Quintette du Hot Club de France, che lo rese immortale nella storia della musica a partire dal 1934, era composto solo da strumenti a corda, anche questa un’innovazione per una musica nata per ottoni e batteria. Il violinista del gruppo, Stephan Grappelli, colto, raffinato, preciso, era quanto di più lontano possibile si possa immaginare dal ribelle Django, ma insieme suonavano divinamente, e nessuno dei due avrebbe rinunciato a quella intesa musicale solo per le divergenze caratteriale. Tra allontanamenti e riavvicinamenti, dovuti soprattutto alle vicende della Seconda Guerra mondiale, Django e Grappelli suonarono insieme per quasi tutta la vita.

L’avventura americana

Nel 1946 Reinhart andò anche in America, si esibì con l’orchestra di Duke Ellington, ma nonostante le qualità tecniche e la sensibilità non gli mancassero, il suo essere nomade non si sposò con la scuola americana. Rimase colpito dal nascente Bebop, che assorbì in parte nel suo stile, ma l’avventura “made in Usa” non andò oltre. Tornato in Europa, negli ultimi anni della sua vita rallentò l’attività musicale, e si stabilì a Fontainebleau, a sud di Parigi.
Qui, la malfidenza verso i dottori, la stessa che a 18 anni gli aveva salvato la mano, nel 1953 gli costò la vita. Il 16 maggio, a soli 43 anni, morì per un’emorragia celebrale che probabilmente avrebbe potuto evitare se si fosse curato. Avrebbe potuto curarsi, ma non sarebbe stato Django.

Dicono di lui gli altri musicisti

«Esitavo allora a fare musica moderna sul più classico degli strumenti, il violino. Ma la convinzione e il genio di Django sgombrarono tutti i miei dubbi”. (Stephan Grappelli)

«Nel 1934 suonavamo tutti e due con l’orchestra che animava i tè danzanti al Claridge sugli Champs Elysées. Nell’intervallo Django aveva l’abitudine di ritirarsi in una saletta da pranzo dietro l’orchestra. Un giorno mi si ruppe una corda e lo raggiunsi là per accordare il violino con la corda nuova e la sua chitarra. Fu così che ci siamo messi a improvvisare per la prima volta insieme. E fu tale il piacere che, nei giorni seguenti, ci raggiunsero il fratello di Django e un altro chitarrista, più il contrabbassista Louis Vola. E’ stato così che è nato il Quintette du Hot Club de France» (Stephan Grappelli)

«Penso che ci siano tre chitarristi che hanno lasciato un’impronta nella Chitarra: Django Reinhardt, Charlie Christian e Wes Montgomery». Joe Pass

«Il più sorprendente musicista della storia è stato Django Reinhardt. È stato quasi un super-umano, non c’è niente di normale in lui, come persona e come musicista». Jeff Beck

 

Qui Nuages, uno dei brani più belli e famosi di Django, arrangiato in Chord melody da Manuel.